Fiumedilatte – Un racconto dal Nepal.
Kathmandu, capitale del Nepal. La temperatura è intorno ai 22°, con un’alta percentuale di umidità. L’aria sa di polvere ed incenso; per le strade, un groviglio di macchine e motorini sono intenti in un diligente e caotico disimpegno di incroci completamente privi di semafori e della segnaletica più elementare. La gente ci sorride, guarda noi turisti con un curiosità e soddisfazione, perché sa che, dopo 20 giorni di cammino, partiremo verso casa con un inguaribile desiderio di tornare.
L’arrivo a Lukla ci catapulta immediatamente in un mondo sconosciuto ed incantato, dove i nostri sguardi increduli si incrociano con quelli divertiti degli abitanti del posto, assiepati lungo i muri a secco che demarcano il sentiero verso l’aeroporto. Alcuni si avvicinano, chiedono se abbiamo bisogno di aiuto. Altri ci sorridono e ci dicono semplicemente Namaste. E noi, ricchi turisti occidentali impegnati a capire cosa volessero esattamente, solo dopo molti giorni avremmo compreso che quel saluto era quanto di più disinteressato e vero potessimo mai ricevere: mi inchino a te, alle divinità che sono in te. Più che un saluto, un augurio; più che una riverenza, una autentica benedizione.
Il primo giorno scorre veloce: i lodge sono accoglienti e confortevoli, i pasti abbondanti e deliziosi, le timidezze iniziali dei nostri giovanissimi portatori – alcuni di loro hanno sedici anni, altri pochi di più – si stemperano subito in sonore risate. Il breve soggiorno a Lukla è come aver sostato in una camera di decompressione: nel momento in cui varchiamo la soglia del kani, l’arco cerimoniale all’estremità settentrionale della città, improvvisamente il peso delle nostre incombenze quotidiane scompare e, leggeri, cominciamo il nostro cammino.
Lungo il percorso incontriamo file di yak che trasportano le attrezzature e le provviste necessarie ai gruppi di trekker. Grossi, dal vello fluente e nero, spesso con nappe di lana ornamentali sulle corna e con coloratissimi paraocchi, questi animali avanzano lenti, insieme ad altri dal pelo più corto, chiamati dzo e nati da un incrocio tra uno yak e una mucca. Strada facendo, lo scenario si fa sempre più strabiliante: i muri mani su cui sono incisi i mantra, piccoli gompa votivi, ruote di preghiera e un viavai di faccette allegre che camminano veloci in ciabatte oversize e in maniche di camicia, i cui volti si scorgono a malapena sotto i voluminosi carichi sulle loro spalle.
Da subito, energico e fragoroso, sentiamo il rumore di quello che sarà il basso continuo del nostro cammino, l’accompagnamento strumentale che darà il ritmo a questa straordinaria avventura: il Dudh Kosi, meglio conosciuto come Milky River, che scende dalla zona dell’Everest e scorre impetuoso nel fondovalle e che noi abbiamo affettuosamente ribattezzato Fiumedilatte.
Viviamo i giorni che ci separano dalla vista dell’Everest con trepida attesa e tutto ciò che si presenta alla nostra vista sembra prepararci ad un incontro quasi sacro, che ognuno di noi aspetta in religioso silenzio, con un atteggiamento cauto e dimesso, con un timore reverenziale verso le persone, quasi chiedendo permesso ad ogni passo, consapevoli di essere ospiti graditi in una terra che ci rispetta e ci accoglie.
Ci fermiamo a Namche Bazaar due giorni, per consentire all’organismo di adattarsi alla quota. Namche è la leggendaria città degli sherpa, caratterizzata da un viavai di strade acciottolate e di scalinate di pietra lungo le quali si ergono le tipiche case nepalesi. La parte alta della città regala una vista meravigliosa sulla valle del Dudh Kosi, con le vette imbiancate del Thamserku e dell’Ama Dablam.
Le acque bianche e spumose di Fiumedilatte ci vengono incontro, fanno vibrare l’anima della valle, muovendo i colori dei rododendri e diffondendo il profumo intenso del ginepro; le vette innevate ci raccontano di sacrifici e cime raggiunte, di attese e di rimpianti, di cadute e di rinascite. Qui, il nostro senso del tempo ha perso tutta la forza corrosiva del suo scandire e si è caricato di essenza, di Vita. Finalmente abbiamo dimenticato, finalmente abbiamo ricordato: il nostro viaggio è diventato un viaggio dentro la nostra anima e ci avrebbe fatto scoprire cose che, una volta tornati a casa, difficilmente avremmo potuto spiegare.
Come la visita al monastero di Tengboche: qui la vita della comunità è semplice, scandita dai ritmi lenti e cadenzati della valle, con il refrain del fiume che fa da controcanto alle preghiere dei monaci. In alto, sorvegliante attenta ed amorevole, l’Ama Dablam, che sembra quasi abbracciare il monastero e i suoi abitanti. È incredibile come la preghiera, in questo luogo sacro, sia un modo di essere, prima ancora che un momento solenne in onore delle divinità: durante la preghiera, i monaci parlano tra di loro, a volte si perdono alcuni passaggi, a volte ridono, a volte gli capita persino di distrarsi. Ma pregano, pregano sempre. E le loro preghiere, scritte sulle tipiche bandierine di origine tibetana, sventolano ovunque: hanno il bianco dell’aria, il rosso del fuoco, il verde dell’acqua, il giallo della terra e il blu dello spazio.
Solo dopo molti giorni avremmo capito che pregare non è supplicare, ma celebrare; non è intercedere, ma vivere in comunione con la natura e con le divinità che abitano dentro ognuno di noi; non è chiedere, ma ringraziare.
Om mani padme om: salve, o gioiello nel fiore di loto.
Nei giorni successivi visitiamo Dingboche e Lobuche ed arriviamo, al decimo giorno, a Gorak Shep. Il freddo e la stanchezza sono tangibili, ma ormai siamo completamente assuefatti ai ritmi lenti e costanti della nostra marcia, che FIumedilatte non ha mai mancato di scandire. La notte passa veloce, nell’attesa che giunga l’alba. Zaino in spalla, black coffee e pan cake, un respiro profondo per assaporare l’aria fine e gelida e via, pronti per la nostra salita. Il passo è lento, la fatica che proviamo è diversa da quella a cui siamo abituati, perché la quota agisce come una piccola zavorra sui nostri muscoli e ci accorcia il fiato. Ma lo scenario che si rivela davanti a noi, una volta giunti sulla sommità, è di straordinaria bellezza: l’Everest, il Lhotse, il Nuptse e, poco più a destra, l’Ama Dablam. Davanti a tutta questa meraviglia, il tempo smette di scorrere, di pesare, di essere tempo e ci regala, per un solo ma lunghissimo attimo, un piccolo pezzo di eternità che non appartiene all’essere umano e che noi, privilegiati al cospetto del tetto del mondo, non potremo mai dimenticare.
Lungo la via del ritorno, Fiumedilatte non ci viene più incontro ma ci accompagna, incalzando i nostri passi con il suo ritmo energico e fragoroso. Ci sembra quasi di sentirlo cantare: arrivederci a presto, piccoli grandi gioielli nel fiore di loto.
Arianna Del Sordo