Un angolo desiderato di Patagonia.
Patagonia agognata, sognata, desiderata da almeno 20 anni. Arrivata ora come reazione ad un anno di dolori e delusioni. Il viaggio per allontanare fantasmi, per ritrovare chi ho perduto, per mettermi alla prova; non un fuga ma la ricerca dell’amore per me stessa. Parto con la sensazione di andare verso casa.
Non mi è chiaro perché proprio la Patagonia, cosi remota e lontana, sia il mio luogo dei sogni. Forse questo nome è sempre riecheggiato nei racconti degli alpinisti lecchesi di ogni generazione, forse la lettura di Chatwin. Cerco Chalten sulla cartina e non è che un punto nella quasi esagerata estensione di questo territorio. Per collocare questi luoghi nella mia personale mappa ho dovuto muovere amici che mi hanno accompagnata e recuperata coi bagagli, percorrere più di 13000 chilometri, aerei, ore negli scali, strade dritte e lunghissime.
E quando finalmente arrivo, il Fitz Roy mi ha gratificata subito con la sua presenza, tra nuvole tempestose ma illuminato dal sole.
E impatto subito con vento. Non avevo idea della sua violenza. Incontrastabile, soprattutto per me che peso quasi nulla. Mi scuote, mi costringe a camminare a carponi, percuote la tenda fin quasi a piegarla eppure … eppure quando non c’è ne sento la mancanza. Restiamo immobili per due giorni alla Playta, Lago Electrico, nel sacco piuma con le tende scosse dalle raffiche, in attesa che le previsioni dicano patagonia e non sempre e solo putagonia! Un riposo forzato, nessun pensiero, dormire, sognare, ascoltare il cuore che batte e la pioggia che cade.
Il trekking sullo Hielo Continental ci è precluso, causa vento e maltempo. Nessuna delusione. Ho sempre saputo che qua si deve imparare l’arte della pazienza ed elaborare piani alternativi per non deprimersi. Si torna alla Piedra del Fraile e lì, nella luce di tarda sera estiva, per un breve istante sento il profumo dell’erba e del trifoglio e mi par quasi di vedere l’ombra di mio padre tra gli alberi, che insegue il suono del picchio. Saliamo al Passo del Quadrado: la visione di un angolo di ghiacciaio ma soprattutto delle pareti di un granito cosi bello che non può che far venire voglia di toccarlo, accarezzarlo, scalarlo.
I campi storici, dove gli alpinisti sostavano mesi, abbruttiti, stremati dall’attesa e dal cattivo tempo, ora son campeggi per ragazzi, persone di mezza età, insomma han perso parte del loro fascino. Fortuna che tutte le cime son li, davanti a noi, nella loro esagerata bellezza.
E poi il Cerro Torre: tra le nubi è ancor più bello che nel cielo terso; esprime tutto il sua drammatico fascino quando il vento muove le nebbie e la cumbre appare e scompare. Scompare la cima del Torre e appare quella della Egger, mai insieme.
Qui, nella magia di questi luoghi desiderati così a lungo, mi son disintossicata dal superfluo. Restano solo i fondamenti: libertà, vita, entusiasmo. E tornare a dormire in un letto, lavarmi sotto il getto d’acqua bollente è piacevole ma dormire fuori, eh, quello è essere nel mondo. E il mio compleanno lo festeggiamo oltre la laguna Toro, in tenda, un biscotto al cioccolato a testa, nessuna candelina, avvolti nel goretex per il vento violento che ci impedisce di accedere al ghiacciaio per il giro del Fitz Roy, di passare ai piedi del Torre.
Rientrare da quel che non mi è mancato, questa forse è la vera sfida.
Arianna Cecchini.